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A volte ...

A volte, le parole sono povere. Ma, quando scritte col cuore, diventano superbamente umane, a tal punto da rendersi capaci di girare il mondo, invitandolo all’inevitabile richiamo ancestrale delle comuni origini della nostra specie.

L’Africa non è lontana. E questo lo sappiamo bene, almeno fin quando manifestiamo una certa commozione nella contemplazione di uno splendido tramonto verso questo immenso e straordinario continente. Ma l’Africa è purtroppo vigliaccamente distante per tutti coloro che, al di là delle indiscutibili bellezze paesaggistiche, non vi scorgono – ahimè – alcuna traccia umana, preferendo, al contrario, come chiaramente scritto dal signor Alberto Norzi nel ricorso alle rispettabili parole di Toro Seduto, “la difesa dei profitti anziché quella dell’uomo”, senza per questo tralasciare la dolce sensibilità del signor Ignazio Cucci nè l’intensa energia verbale del signor Enrico Virtuani.

L’accostamento umano agli atteggiamenti ed alle espressioni estetiche della natura africana non riesce ancora, nonostante le tragedie consumatesi davanti ai nostri occhi, ad estendersi e ad abbattere l’inutile fortezza storica esteriore della nostra distorta ed incompleta visione del mondo, divenuta, nel tempo, riparo certo alle cose “barbare”, cancello sbarrato alle “imprevedibilità” reali, sentiero interrotto sulle familiari tracce antropologiche.

Vite sotterranee, orizzonti in galleria che reputiamo preferibili appartenere ad un romanzo, quasi fossero inventati sulla linea della verosimiglianza. E invece no: esistenze incredibilmente vere che il nostro giornale riesce a far sentire vive nella coscienza di ciascuno, ormai da tempo insensibile ai veri drammi della vita.

Non ci importa nulla di presentarci ignobili agli occhi dei nostri fratelli, se non mostrando loro, all’occasione, flebili fiaccole di speranza presto spente, sostituite dalle abbaglianti luci d’Occidente, che ci hanno resi ciechi finanche agli accostamenti più drammatici nella loro evidenza, protetti dalla triste discolpa che “il sangue spicca di meno sulla pelle nera”.

Siamo soliti conferire ai popoli africani un volto grezzo, selvaggio, per nulla antropizzato. Ma, volgo a voi la domanda, dopo averla proposta e sempre riproposta a me stessa: quanto ancora selvaggi e poco antropizzati siamo noi stessi uomini, abitanti di un’isola che dovrebbe abbracciarci tutti facendoci ascoltare la dolce melodia del suo mare, tenerci al riparo da ogni vento avverso con la rassicurante presenza della Madre Montagna, piuttosto che sporcarci quotidianamente con i salutari fanghi dei vulcani, al contrario, in saggia e rispettosa quiescenza?

Dopo aver affrontato l’ostacolo della risposta, la speranza di un miracolo, nel riconoscimento fulmineo di un sentire umanitario che superi le intolleranze e le discriminazioni locali ed estere, nella sincera adesione a un nomadismo di pensiero e di evoluzione del nostro essere, che possa debellare finalmente l’effimero individualismo.

Siamo tutti sconfitti e diseredati in questo mondo, se non saremo in grado di scoprire, magari sotto le nostre stesse dimore, l’originario testamento dell’onesto itinerario da perseguire e condividere, in cui chiaramente tutelate l’uguaglianza dei diritti sociali e civili, la superiorità dell’essere sull’avere, la proiezione all’alterità e al valore delle relazioni umane; perché, distendendo il pensiero di Toro Seduto, “La Terra ha ricevuto l’abbraccio del Sole, e Noi vedremo i risultati di questo Amore”: per non sentire nel vento i lamenti delle vite consumate, per porre fine alle onde, e perché le nostre parole possano assumere, finalmente, tutti i colori del mondo.

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